Taxi Fillo 1

Taxi Fillo

di Filippo Messori

La nottata era partita bene, per poi assestarsi rapidamente su una vaga noia mista a bestemmie fitte e gelate. Prima vado a vuoto a Baggiovara, con la chiamata annullata proprio mentre mi fermavo all’indirizzo in questione, poi becco la matta che piange a cui non va la tessera del taxibus notturno. E, piangi piangi, la porto a casa per i 6 euro del cazzo, col tassametro arrivato ad un 23 sacchi davvero torrido per queste sere di settembre. Neanche finito di bestemmiare, con questa che continua a giurare su genitori morti che la fortuna mi sorriderà, continuando a zigare come un’aquila scende, e riparto come mi ero fermato, in un rutilante rumore di meccanica nipponica messa in crisi da energiche pedate di gas.

Arriva una corsa che, se nel primo secondo sa di premio di consolazione, immediatamente dopo già lascia trasparire una disperazione trasvolante: bar Bruciata, un posto che in primis è lontano – e quindi mi sparo della strada “a gratis” per non ammazzare il cliente – in secundis è un locus davvero poco amoenus alle 2:34 di un mercoledì mattina.
Raggiungo rapido e silenzioso come un coguaro il postaccio, ed ecco che mi si presenta il mio pronostico: un soggetto non alto, con un cappotto, una coppola, degli occhiali da sole tipo carrera, ed una Redbull in mano. Sta fumando. La mano trema vistosamente. Ubriaco come un porco. Un accento dell’est si fa strada tra le volute di fumo, chiede se può fumare in auto. Col cazzo, dico io. Aspetto che finisca. Sale davanti, nonostante gli chieda di mettersi dietro. Amen. Partiamo. Va’ lungo via Emilia che cerco una puttana, mi dice.
Corsa standard, quindi. Solo che si levi dal cazzo in fretta e cerchiamo anche satana insieme. Vado pianino per fargli godere il panorama, ma di zoccole, proprio stasera che servirebbero, neanche l’ombra. Mi guarda mentre beve con la mano tremante. Mi guarda fisso. Emana un odore dolciastro pungente, un mix tra Redbull, un piede umano da tempo a contatto di tessuti acrilici in agosto, una merda di cane ed una roncolata nel fegato.

“Tu mi conosci”.
“Eh?”
Dice che ci siamo già incontrati. Effettivamente, gli ho già salvato la vita un paio di volte, solo che con quello scafandro che usa al posto degli occhiali da sole non l’avevo proprio riconosciuto.
Torna a guardare avanti, e mi dice di andare forte. Alza a balina il volume della radio, dice di mettere Radio Bruno. Canta a squarciagola un singolo di Zucchero, battendo le mani sul cruscotto. Effettivamente è un po come se fosse “lo Zucchero slavo”. Arriviamo in quella desolazione cubica che si chiama via Emilia est. Non c’è una troia a pagarla oro. Superiamo una macchina di gufi che va a 15 chilometri orari, e lui fa dei gestacci dal finestrino. Spero nella galera. Sempre meglio che stare lì in apnea. Niente, i tutori della legge se ne sbattono altamente.
Dice che stasera c’è Putin a Modena.
Io mi stupisco abbastanza. Lui mi guarda e mi dice che è il figlio di Putin. Mi tende la mano. Gliela stringo.
Poi ride e mi dice che sta scherzando. Dice che si chiama Vito Catozzo.
Qui mi conquista, e l’improvvisa benevolenza fa si che, alla nostra sinistra, compaia una classica auto in camuffa con dentro una laida.
Accosto e mi fermo.
“Ma quanti siete?” dice la bionda con una voce tutt’altro che argentina, diciamo baritonale.
Solo io dice lui, ti va di fare coppia?
“Ma sono di Sassuolo”
“E vengo con te”
“E come torni”
“Prendo il treno domattina”
Il solo pensiero di Gigetto mi disgusta.
Concludono il contratto, paga, e sale garrulo sul cinquino bianco, in rotta verso il distretto ceramico.
Vaglielo a dire che trova la sopresa.