Taxi Fillo 4

di Filippo Messori

Taxi Fillo 4

Alcune giornate nascono con una perfetta imperfezione, o con una perfezione imperfetta. È tutto perfettamente disposto come un puzzle ben riuscito, ma mentre ammiri il risultato sul tappeto (io li ho sempre fatti per terra) ti accorgi che hai invertito due tessere molto simili, fatto che crea una leggerissima ma pur percettibile disarmonia nel risultato.
Oggi va così, doveva essere una giornata morta, ed invece si gira bene, corse discrete minimamente impattanti sull’animo del sottoscritto, traffico leggermente problematico ma affrontabile, clima caldo ma non proibitivo.
È filata così per tutta una giornata, e nemmeno la pausa pranzo, che troppo spesso interrompe i flussi positivi, ha agito da spauracchio per le botte di culo.
Verso le diciotto vado alle corriere, già sommessamente soddisfatto per il budget giornaliero che oramai era a portata di mano, e posteggio.
Sono primo, e l’autocompiacimento aumenta ancora quando riesco a sfuggire dai furtarelli di due bimbi rom grazie ad una chiamata provvidenziale.
La luna buona continua, evidentemente.
Arrivo all’indirizzo un po’ trafelato, perché nella fretta di seminare i due monelli avevo dato solo due minuti di attesa, quando ne avrei dovuti dare il doppio. Nessun problema, ad ogni modo: il negozio di pachistani ha la pertinenza ancora deserta.
Il bangla mi scorge da dentro, mi fa un cenno e sorride. Bene.
Bene una cippa.
Dalla porta esce, accompagnato dall’esercente, un vecchio traballante, vestito di marrone.
Zoppica, e cammina soppesando molto bene ogni passo, mugugnando qualcosa fra sé e sé, pur con aria bonaria. Scendo ed apro la portiera, e lui ringrazia già nonostante sia ancora a qualche passo di distanza.
Appena mi arriva a fianco, comincia a delinearsi il contorno di questo soggetto. Puzza di vecchio, e non sarebbe una novità. Ma qualcosa mi inquieta.
È leggermente curvo, ha una carnagione piuttosto chiara, ed i capelli sono portati all’indietro, disordinati, unti, e quel che è peggio tinti di nero in maniera grossolana.
Gli abiti sono sul marrone spento, ma temo sia un colore risultante dalla scarsa igiene: l’odore si conferma agghiacciante e peggiore del previsto.
Sa di scalmito, in modo ripugnante, un fetore umido di piscio leggero, muschiato, e la nota ammoniacale lo rende molto pungente, impossibile da ignorare. Inoltre è forte, e col calore di fine primavera riempie il pur spazioso abitacolo ceco in men che non si dica.
Ha le unghie lunghe, verdi, marce. Le mani sono affette da quella che sembrerebbe una artrite non troppo avanzata, e la barba è di un paio di giorni.
Ha una sportina contenente alcuni tetra di succo di frutta, che custodisce gelosamente.
Chiudo gli occhi e stringo il volante cercando di trattenere un conato, e domando dove mai debba andare.
È nuovo di queste contrade.
“Ah, cosa vuole che le dica, son rimasto a piedi con la macchina. Ho fatto il pieno di gas, mo la benzina non l’ho fatta, e adesso non parte. Lei mi accompagna al distributore, io prendo una latta di benzina, pagando, s’intende, e poi mi riporta alla macchina, che proviamo a farla partire. Ohi ohi ohi, venir vecchi!!!”
Su questa leggera nota di autocommiserazione parto, accecato dal pathos e dall’olezzo, che nel frattempo mi aveva già fatto marcire il naso.
Al distributore, mezzo chilometro più avanti, su una via giardini piena di assatanati pendolari, si fa gabbare spendendo un piccola fortuna per una tanica in plastica, con cinque litri di verde dentro.
“Dove la porto, dunque”, chiedo, sperando che la mia agonia olfattiva sia all’atto finale, ma la riposta è quantomai opposta ai miei desideri: “eh, adesso facciamo via giardini, che vediamo dove l’ho mollata, non ricordo”.
Quando un over 80 non ricorda, in genere non ricorda davvero.
Questo significa percorrere una delle strade più caotiche della città ai 20 orari, cercando un veicolo che potrebbe essere ovunque, dato che nonostante i tentativi di ricostruzione il vuoto sembra totale.
Già, la macchina, che macchina avrà?
“Eh, una Fiat.”
“Ma che modello?”
“Ah, dio, non mi ricordo, un vecchia, avrà quindici o venti anni, degli anni settanta (?), è una familiare, ma non proprio familiare…”
“Ma il colore?…”
“Chiara, col portapacchi”.

Perfetto.

Inizia un girovagare per chilometri e chilometri, col vecchiarello attaccato al finestrino come un bambino per la prima volta in vacanza coi genitori. Risultati: nessuno.

A un certo punto devo mettere la parola fine a questa faccenda, e visto che il vegliardo cominciava a citare insistentemente figli e nipoti, penso che sarebbe opportuno consegnarlo a mani esperte, e tornare agli affari.

Ma lui non sente ragione, si incaponisce, inizia a sbroccare, e il cazzo si rompe.

“Senta” dico, “lei fa un metro ogni quarto d’ora a piedi, ed è impossibile che abbia fatto tutta sta strada da solo. Adesso la cerchiamo qui” “ma io le dic…” “ho detto qui, e poi la porto da suo figlio che vedrà che saprà cosa fare”.

Penso alle strade limitrofe, faccio le prime due e nessuna vettura corrisponde allanpur vaga descrizione. Poi, dietro un angolo, vedo un veicolo che corrisponde perfettamente non alla descrizione, ma al soggetto: una fiat brava grigio metallizzato, scrostata e opaca, gomme basse, fanali opachi come avesse la cataratta, un portapacchi a cesta vecchio stile, sportellino della benzina aperto. Tutto a 20 metri dai pakistani.

Bingo.

Lui quasi piange, ci si avventa incontro come una anziana madre verso un fresco reduce dell’Armir.

Prende la tanica, versa la benzina, tenta l’accensione.

Il vetusto e asfittico monoalbero rantola, singhiozza, tossisce, raglia, e infine, con l’ultima scintilla di batteria, prende vita con un fragoroso e potenzialmente letale fuorigiri derubricato subito ad entusiasmo senile.

Ringrazia sentitamente tutto il capannello di gente attirata dal rumore di ferraglia, si pettina il muschio e i licheni, e parte, facendomi rabbrividire al pensiero di condividere la strada con tale concentrato di sfighe e patologie.

Svoltato l’angolo, la memoria perduta sovviene a me: non gli ho chiesto i soldi.

Ma le contrade sono oramai deserte, di cercarlo non ne ho voglia, e il piatto piange.

Si riparte.

‘Til next time, Alzheimer.