di Beatrice Bettuzzi
Mi dispiace vederli soli e, semplicemente, sto con loro. Cerco di aiutarli e di farli sorridere.
Ho iniziato il tirocinio a Casa Serena, casa di riposo sassolese, lo scorso anno; la prima fase è terminata. Spero che il percorso mi venga rinnovato a Settembre perché “lavorare” lì (dato che il mio spirito è quello del lavoro anche se sono “solo” una tirocinante) mi fa sentire davvero utile per gli ospiti della struttura. E il sentirmi utile mi riempie di gioia anche se, e lo dico per ridere, sarà dura convincerli a cantare anche Fedez al Karaoke! Temo che dovrò sentire ancora Romagna Mia o i Ricchi e Poveri.
Mi chiamo Beatrice Bettuzzi e ho 24 anni. Ho la fortuna di partecipare a tante attività con gli amici di MeteAperte, Anffas ed Educativa Territoriale: nulla supera come qualità il tempo con gli amici del cuore. Ma ammetto che il tempo passato a Casa Serena è stato altrettanto speciale. Negli ultimi mesi andavo su dal Martedì al Sabato nella fascia 8.30-11.10. Non è stata la mia unica esperienza in una casa di riposo: venivo da una conclusione spiacevole dal precedente impiego, un brutto finale che mi ha creato diverse tensioni. E così quando la mia educatrice di riferimento, Francesca del Servizio Educativo Inclusivo, mi ha proposto di intraprendere il percorso a Casa Serena sono uscite alcune mie insicurezze che mi accompagnano da sempre, per prime quella di non sentirmi all’altezza della situazione e quella di sbagliare. Ho però capito che a volte vale la pena buttarsi senza pensarci troppo e così è stato. Per fortuna!
Sto vicino a persone anziane, spesso non autonome. Uso il presente e non il passato perché emotivamente mi sento ancora con loro. Vedo pianti e sofferenza e soprattutto tanta solitudine. C’è chi mi chiede come io possa andare volentieri in un posto dove succedono cose tristi: la domanda ci sta ma ci sta anche la mia risposta: perché mi sento utile! Sento di poter fare la mia parte per poter aiutare chi ha bisogno e alleviare anche solo un po’ di pena.
Lo staff di Casa Serena è fantastico: Cristina ed Elena, oss e fisioterapista, mi hanno insegnato un sacco di cose e mi coinvolgono nelle decisioni sulle attività da fare. Aiuto con le carrozzine, i girelli, preparo documenti al computer, ho fatto anche turni al centralino e all’ingresso.
E poi do una mano per i bisogni primari degli anziani: cibo, bagno.
Ma quello che mi resta di più, e che resta di più anche a loro, è quando ci ascoltiamo, parliamo e ci facciamo una vera compagnia. Non finta: vera! È la stessa sensazione che avevo da bambina quando mi veniva istintivo passare tempo con i miei nonni: lo facevo volentieri. Dargli una mano e chiacchierare con loro mi faceva stare bene. Mi capita anche a Casa Serena: gli ospiti sentono che cerco un dialogo vero e mi ricambiano con affetto: sono simpatici, di certo anche brontoloni, ma molto simpatici. Quasi paterni. Imparo tanto da loro, sto davvero facendo un’esperienza di vita utile. E poi quante risate…
“Dov’è andato coso? L’è andé a cagher!”, mi ha detto uno qualche settimana fa. Sono morta dal ridere.
Per fortuna capisco abbastanza bene il dialetto perché buona parte degli ospiti parla prevalentemente quello. Ecco, magari ho più difficoltà con i dialetti dell’Italia meridionale ma mi adatto a tutto.
Mi vogliono bene. Dicono che sono una brava ragazza, semplice. Spettegolano chiedendomi se io abbia o no un fidanzato. Mi ascoltano, mi rispettano, proprio come io faccio con loro e tutto è venuto naturale.
Marino alla mattina di solito mi abbraccia e mi chiama “il mio risveglio”. Il mio risveglio! Che meraviglia. Giuseppina è incredibile: a Settembre fa 102 anni ma si diverte ancora con verticali e capriole. Pazzesca. Moy è di origine cambogiana: l’ho aiutata a leggere e a scrivere in italiano. Gli altri la prendono bonariamente in giro perché capisce poco la lingua ma tutti dicono che con me ha fatto molti progressi.
Oh, non sono sempre rose e fiori, come dicevo: l’altro giorno ho dovuto separare due che si stavano spingendo col girello, a vivere in così tanti sotto lo stesso tetto le tensioni escono.
E poi la solitudine: c’è chi dice di sentirsi “mollato qua” e di non avere mai visite da parenti o amici. C’è chi, non potendo uscire dalla struttura, parla di carcere.
E poi c’è la morte: durante il tirocinio ho visto andarsene Ines e Alma. Che tristezza. Che dolore. Cerco di aiutare anche in questo poi magari mi faccio aiutare io stessa quando arrivo a casa; mi sento sostenuta e capita dalla mia famiglia e quando racconto cosa mi succede e le esperienze con i “nonni” mi sento gratificata.
Tante cose in un solo tirocinio.
Sentirmi utile mi dà un ruolo, mi riempie di vita.
Spero di poter proseguire.