Taxi Fillo 5

Taxi Fillo in mezzo alla nebbia di Modena

di Filippo Messori

Esco di mezza con un nebbione da legarci la bici attaccato, cosa che mi conforta visto l’umore uggioso con cui esco di solito di casa la sera. Almeno ci si fa compagnia.
Nei primi millecinquecento metri rischio già la pelle un paio di volte grazie ad un ramapiteco curiosamente dotato di suv Audi, che per andare al solito indirizzo sacrosanto deve superare in curva alla cieca, rischiando un filotto reale fra lui, me e una ambulanza che proveniva in senso contrario.
Neanche il tempo di riprendere i sensi, arriva una corsa proprio dalla mia frazione di residenza, o meglio, dalla sua farmacia.
Giro la macchina e vado, precisando una corsa di medio raggio molto gradevole e succosa.
Arrivo, e c’è un vecchietto che cammina su e giù in mezzo alla bruma.
Alto, scheletrico, un volto scavato con degli zigomi hollywoodiani a far da cornice a due occhi sereni da suora, privi di ogni possibile turbamento.
Esce il farmacista, amico di oramai lunga data: ha chiamato lui, e mi spiega che il signore è perso, totalmente, e deve andare in via Sepp Dietrich 188.
Sale, e comincia un panegirico contro il traffico, troppo, un gran casino, dice lui. Va beh, dice sempre lui, così almeno ha visto Modena.
Dice che lui non lo sa, non lo sa.

Tento un qualche luogo comune, ma le risposte latitano, unico segno di vita un ticchettio di unghie sulla plastica del pannello porta.

Ad ogni svolta, un’unica domanda, ovvero se il traffico sia sempre così.
Eh si, gli rispondo, anche peggio.
Eeeeh, anche peggio, anche peggio.

Arriviamo a casa, ed io sento inumidirmi il carradone, essendo conscio che si avvicini il momento cruciale: avrà detto l’indirizzo giusto, o qui parte solo la fase B dell’avventura? Strada di merda via Sepp Dietrich, non c’è posto per fermarsi, butto il taxi da un lato, e lo faccio scendere.
Lui non trova neanche il campanello.
Chiedo come si chiami, Aristide Zumpatakis, ecco che un cognome coincide, e grazie al cielo, sembra anche avere famiglia.
Suono.
Risponde una signora anziana, la voce rotta.
Con un tono sereno le dico che siamo noi, siamo a casa.
Lei dice il piano, lo prendo per mano e chiamiamo l’ascensore.
Non credo sia il caso di lasciare l’ultimo miglio alla bontà del fato, questo qui è buono di passare la notte in cantina.
Arriviamo su, e la porta socchiusa lascia passare un fascio di luce, nel quale si staglia una signora minuta, paonazza in volto, un sorriso stentato, gli occhi rigati, disfatta dalla preoccupazione.
In un momento di evidente coscienza, il signor Zumpatakis mi dice “adesso mia moglie mi ammazza”, ma credo proprio di no, ne avesse avuta la forza e la voglia lo avrebbe già fatto.
Saluto, scambiamo gli ultimi accordi per una seconda corsa per il recupero della vettura che mai avverrà, e scendo le scale al buio, come mi piace da sempre fare.

Arrivo al taxi nella solita nebbia, le quattro frecce accese.
Salgo.
Il tassametro in cassa, segna 23,80.
Mi ero scordato.
Che il buon Aristide fosse contagioso?
Va beh, almeno abbiamo visto Modena, dai.
Io non lo so, io non lo so.